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Taganu (o Tiganu) di Aragona




Tra le preparazioni pasquali che la “stuzzicosa” amministratrice di questo sito mi ha segnalato l’altro giorno c’era il “Tagánu di Aragona”; non ho mai provato a farlo, ma voglio provare a raccontarvelo sulla scorta delle indicazioni di un benemerito della gastronomia siciliana, Giuseppe Corìa che, tra le altre, ha raccolto e trascritto la ricetta di una nobile famiglia di questo grosso centro in provincia di Agrigento.

Deve esserci grande disponibilità di argilla dalle parti di Aragona e dovevano esserci, un tempo, parecchi “vasari”, quegli artigiani che, tornio azionato a pedale, acqua e argilla, producevano vasellame, brocche, “bùmmuli” e “quartare”… e tagáni, appunto. Che non sono altro che grossi tegami cilindrici a pareti alte che servivano per questa preparazione rituale di Pasqua; preparato e portato in tavola appena tiepido, “ù tagánu” veniva rotto per liberare il suo contenuto.

Per prepararlo occorrevano 550 gr di rigatoni, dei più grossi, che, lessati al dente venivano scolati e sistemati, uno per uno e ben distesi su un canovaccio per asciugare; dovevano infatti rimanere ben aperti per raccogliere poi il ricco condimento. Di questi rigatoni bisognava fare tre parti, come degli altri ingredienti del resto; lo richiedeva la tecnica dell “’ntianári” che spiegherò dopo…

Avevano preparato prima un ragù con 500 gr di carne di maiale e poi: cipolla, aglio, cotica, “astrattu” diluito in quattro cucchiai di vino rosso, pomodori da salsa maturi e spellati, alloro, basilico, prezzemolo, sale e pepe.

Due ore di cottura a fuoco stanco e, una volta freddato, la carne, separata dal sugo e tritata minutamente, veniva utilizzata e il sugo no (ma ne era rimasto poco, di liquido…).
Di 40 uova dovevano disporre; 36 venivano battute con 400 gr del primo pecorino della stagione, grattuggiato, e vi si aggiungevano un mazzetto di prezzemolo e la carne di maiale tritata. Le rimanenti 4 uova, battute con 4 cucchiaiate di formaggio, servivano per la copertura. Anche le trentasei uova con tutto quello che avevano unito andavano divise in tre parti. In ultimo 1,250 kg di tuma, anch’essa freschissima, veniva tagliata a fette sottili e le fette tagliate divise in quattro porzioni: tre da 350 gr ed una da 200 gr.

Ora, finalmente, si poteva “integamare”. Sul fondo si disponeva la tuma della prima porzione e si cominciava a farla risalire sulle pareti del tegame; si sistemava la prima porzione di pasta, larga e senza pressarla che il condimento (la prima porzione del battuto di uova, formaggio e carne) doveva colarvi dentro e intridere tutto. Poi si ricominciava: tuma a coprire il primo strato e su, sulle pareti; pasta e condimento. Poi il terzo strato, come i due precedenti. E l’ultimo strato si chiudeva con la porzione più piccola di tuma e versandovi sopra il battuto delle 4 uova…
Tutto doveva andare in forno, adesso, in un bel forno a legna, con la volta di mattoni refrattari, era sicuramente così. Ci stava per mezz’ora; poi si tirava fuori, si faceva intiepidire così che il formaggio si rassodasse un po’ e costituisse il “collante” e, nel mezzogiorno del sabato che precede Pasqua, si portava in tavola. La Madonna, così vuole la tradizione, afflitta e non ancora certa di quello che sarebbe successo l’indomani, mangiò solo un uovo. I siciliani di Aragona, sempre fantasiosi e poco disposti a lesinare sul cibo come tutti i siciliani, ottemperavano così alla “devozione”: una cosa sola, però…! E infatti questo “tagánu” vale per primo e per secondo. Lo si portava in tavola, dicevo; e lì, spaccato il “coccio” compariva questa specie di panettone…
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Giampiero




 

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