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Lo diceva sempre il mì nonno, davanti a questo piatto.
Grande persona, il nonno. Ha segnato la mia vita in maniera indelebile. Socialista e fondatore del partito a Prato, spirito libero, autodidatta (aveva fatto la terza alle scuole domenicali!) col quale potevi affrontare qualunque argomento sicuro di trovarlo preparato, profondo conoscitore ed amante della montagna. Avevo solo 5 anni quando mi portò in cima alla Calvana, la "montagna" di Prato, e di lì mi fece ammirare quel bellissimo panorama della piana Firenze-Prato-Pistoia che avevamo ai nostri piedi.
Quante volte siamo stati "in poggio" insieme, tornando sempre con qualche dono: a seconda della stagione, radicchio selvatico misto ("metti sempre poca salvastrella, che ha un sapore forte!"), mazzi di giunchiglie o giaggioli o altri fiori profumatissimi oltre che splendidi, funghi pinaroli o pennecciole o vesce o prataioli (niente porcini, in Calvana un fanno), asparagi selvatici da noi detti "spazzole" a mazzi grossi come un tronco, fichi seccati sulla pianta perché mai colti (dolcissimi!), il formaggio del primo sardo che aveva cominciato ad allevare pecore su quella montagna identica a quelle della sua isola, carsica e brulla (ma il nonno ce l'aveva con lui: le sue pecore brucavano tutti i germogli delle giunchiglie, che infatti dopo poco sono praticamente sparite!).
Aveva conosciuto la fame, il nonno: a 4 anni l'avevano mandato a "girare la ruota" del cordaio, per portare a casa anche quei pochi spiccioli; e come tutti coloro che hanno vissuto quella tremenda esperienza era un buongustaio. Nel senso che apprezzava i sapori semplici, i piatti di poca apparenza e di molta sostanza, le ricette che consentivano di usare poco companatico e di molto pane.
Oltre che in tantissime altre cose, mi ha influenzato anche in questo, il nonno: spesso, quando imbratto le pentole, penso che a lui certe cose sarebbero piaciute molto.
E ho ripensato a lui anche ieri sera, quando ho fatto "il borbottino" per cena.
Con quella strana parola a Prato si indica in genere una ricetta che richiede un misto di ingredienti: tipico esempio di un "borbottino" ad esempio è la minestra di pane, con tutti quei tipi di verdura. E lo sarebbe, sempre per esempio anche il cacciucco; ma questo non è un piatto molto pratese...
Il nonno però con quella parola identificava questo:
Si prendono dei fagioli bianchi lessati, possibilmente in forno (qui da noi si trovano in tutti i panifici).
La cottura dev'essere piuttosto prolungata, i fagioli molto ben cotti ed il loro brodo denso. Si tirano su scolati ma non troppo, ed in una zuppiera si condiscono con pezzetti di pomodoro maturo (oggi uso i ciliegini), cipolla a fette (oggi uso la Tropea)messa in un bicchiere con l'aceto a perdere "il forte", radici (=ravanelli) anch'esse a fettine, tre o quattro foglie di basilico spezzettate, un bel pezzo di tonno sott'olio grossolanamente sbriciolato. Olio d'oliva di Filettole (paesino alle falde della Calvana, noto per dare un olio squisito), l'aceto in cui hanno riposato le cipolle, sale, pepe abbondante ed una bella mescolata.
Nient'altro, se non un filone di pane a portata di mano. E vino rosso.
Magari, se potete, provate a immaginare il mi' nonno che lo mangia a grosse cucchiate, dicendo estasiato: "che borbottino..."!
Sì, non ci è voluto molto ad immaginare il nonno, mentre mangiavo il borbottino... grazie Tosco, e grazie al nonno !!