gennarino.org

Tina,hai realizzate delle cose bellissime!
antonia

perdonate un'osservazione.
Le vostre produzioni sono bellissime alla vista e, senza dubbio, saranno anche ottime al gusto.
Conosco chi ha sperimentato, quindi posso asserirlo senza ombra di dubbio.
Ma...ma...abbiamo iniziato parlando di "pasta da rosticceria siciliana" e, dagli ingredienti che leggo, direi che non è più lei.
La pasta da rosticceria classica non ha latte, ma solo acqua, ha molto più zucchero(infatti il sapore finale è dolciastro), non ha malto, ne' miele.
Anche l'aspetto( ma qui bisognerebbe assaggiare... )sembra più vicino ad un panino morbido, sembra che ci sia una lieve crosticina che non ci deve essere.
Nella pasta tradizionale non c'è...come dire? soluzione di continuità tra la mollica interna e l'esterno, sia pur colorito.
Anche l'uso di farine più forti mi lascia un po' perplessa...qui usano solo la 00.

Dico questo perchè ci si proponeva di ottenere un risultato identico alla vera pasta da rosticceria, quindi va bene variare la tecnica, poolish, pieghe etc...rispetto alla tecnica tradizionale, che è a impasto diretto e con poche manipolazioni, ma le variazioni di ingredienti e dosi dubito che portino ad un prodotto fedele alla ricetta tradizionale...

io sgridare?!?
ma se sto qui coi sensi di colpa a tremila, perchè non sperimento, non fotografo, non invento e mi "apparassito" su di voi...
erano solo considerazioni...mi pare che la ricetta delle brioches col tuppo di Cinzietta sia un po' antica e non so se ancora la usa.
Comunque, crosticina a parte, i pezzi di Tina sono molto belli...mi ha sorpresa il cerchietto sulla ravazzata, che è proprio una cosa palermitana-palermitana
e le pizzette sono grassottelle come devono essere.
Teresa, quando vieni compriamo qualche pezzo di quelli buoni e lo vivisezioniamo

Tu aspetta, che io la porto in rosticceria...

Anita, scusami se insisto.
Anzi, scusami in premessa se non sono puntuale (non nel senso temporale, ma nel senso di dettagliato) nei rilievi ma ieri, quando ho dato una scorsa ai messaggi che mi ero lasciati dietro durante questi giorni in cui sono stato male, non avevo una gran voglia di rispondere.

Come dicevo scusami se insisto, ma a me la locuzione «pasta da rosticceria» al di là dei salsicciotti germanici mi dà l'idea della tradizione. E la tradizione mi rimanda al passato. E il passato mi rimanda a farine macinate a pietra e a paste acide, visto che la produzione industriale del lievito di birra ha origini relativamente recenti e così la sua distribuzione su larga scala in monoporzioni (che poi «mono» si fa per dire: a me un panetto di questi tempi durerebbe almeno 25 volte se non passasse prima a miglior vita).

Cosa significa in concreto quanto sopra? Significa che non ci troviamo quando mi parli di farina, quantità di lievito e tempi di lievitazione.
D'accordo che si usa solo farina 00, ma come già detto quei due zeri indicano nient'altro che l'abburattamento della farina, non la sua forza. Anche a Napoli per la pizza la totalità, o quasi, dei pizzaioli usa farina 00, ma non si tratta di una 00 qualsiasi, bensì di 00 di media forza, cioè con W superiore a 220-230 e inferiore a 280, ad esempio la Caputo pizzeria e la San Felice azzurro pizza. Altri molini per pizza offrono farine 0, ma a rigor di disciplinare per la vera napoletana andrebbe usata farina 00 e la 0 è ammessa solo in miscela con 00 (probabilmente chi ha steso il disciplinare ha tenuto conto che le manitoba che si trovano in giro sono in prevalenza 0 e dunque in questo modo ha voluto far salva la possibilità di usarle per rinforza farine più deboli, purché le farine di base della miscela siano sempre 00). Allora, è chiaro che se chiedi alla stragrande maggioranza dei pizzaioli napoletani (credo che a Napoli Caputo e San Felice esauriscano il mercato; qui ad Afragola invece c'è chi usa farine Molini campani, del gruppo Alimonti, in particolare i semilavorati a marchio NapuleNà e le farine a marchio Chirico) ti dirà che per la propria pizza usa solo farina 00, ma bisogna avere ben chiaro che questa classificazione, che indica solo la raffinazione del prodotto, rispetto alla resa dello stesso in panificazione vuol dire poco quanto niente. Il parametro che indica questa resa è il coefficiente W di cui al grafico rappresentato dall'alveografo di Chopin.
D'accordo che la manitoba non è tradizione... Nemmeno a Napoli la manitoba è tradizione; ci mancherebbe. Ma «manitoba» è solo un nome commerciale molto in voga in Italia per indicare le farine di forza, la cui provenienza effettiva dall'omonima area geografica è tutta da vedere (si coltivano grani teneri piuttosto forti perfino in Emilia). E avere farine manitoba da supermercato in dispensa può essere molto utile per sopperire alla difficoltà di potersi procurare una farina adatta a tutto in casa. Una volta si usava la farina d'Ungheria e la farina bianca di base per tutte le preparazioni che la massaia trovava facilmente a disposizione era mediamente più forte di oggi, poiché i processi molitori in voga all'epoca non erano aggressivi come quelli moderni. Infatti tale farina era in grado di sopportare le lievitazioni con pasta acida, le uniche un tempo esistenti. Poi nel negozio sotto casa è comparso il lievito di birra e anche l'industria molitoria si è adeguata in tal senso, facendoci trovare sul mercato una 00 'base' sempre di peggior qualità. Finché non ha lanciato la manitoba e poi, quando il consumatore ha cominciato a divenire più attento, le 0 e 00 specifiche per pizza (e in parallelo le 00 specifiche per torte, che in alcuni casi dato il prezzo sono per il consumatore imbecille più che per il consumatore attento ).